venerdì 30 novembre 2018

Animali abbandonati in pascoli abusivi - da Vita.it


“Animali abbandonati in pascoli abusivi” (Edizioni Alia, 2018) l’autobiografia collettiva di una generazione che scelse l’obiezione di coscienza e di stare dalla parte scomoda, ma giusta: quella delle persone senza diritti



 Resistere era servito a qualcosa: con queste parole Matteo Amati apre, nella prima parte di quella che è e resta l’autobiografia collettiva di una generazione che scelse un ’68 al fianco degli ultimi, il suo primo libro Animali abbandonati in pascoli abusivi” (Edizioni Alia, 2018). Si trattava di ottenere assistenza per il figlio minore di una signora, madre disabile di altri tre figli e con un marito alcolizzato: erano i primi anni ’70. I servizi alla persona ancora non c’erano o comunque erano veramente poche le risposte di assistenza pubblica esistenti. L’Assessorato ai servizi Sociali era in via Petroselli. Nessuno ebbe una risposta da dare a questa famiglia. Matteo Amati, stufo di rimpalli da un ufficio ad un altro, dormì lì e attese il giorno dopo. Il piccolo Luca ebbe la possibilità di una vita diversa: un’opportunità.

E’ un ’68 diverso, sicuramente poco raccontato. Un ’68 collettivo, caratterizzato da incontri importanti e tante preziose figure minori: la storia di Matteo Amati è la storia di una generazione che scelse di stare al fianco degli operai del marmo travertino di Tivoli, al fianco dei 350 tipografi dell’Apollon che occuparono la fabbrica per evitare i licenziamenti, al fianco di Don Sardelli che sperimentava la sua scuola nelle baracche dell’Acquedotto Felice, al fianco della Comunità di Capodarco che iniziava il suo percorso per l’inserimento sociale e lavorativo delle persone con disabilità, al fianco di quei giovani e di quei braccianti agricoli che chiedevano lavoro e recupero delle terre incolte a Roma. Una generazione generosa, entusiasta, consapevole di essere il cambiamento. Una generazione che abbracciò l’obiezione di coscienza. Una generazione che scelse, con profonda radicalità, di stare dalla parte scomoda, ma giusta: quella delle persone senza diritti. Dalle occupazioni di fabbriche e terreni agricoli alla nascita delle prime cooperative sociali, fino all’impegno politico dentro le Istituzioni: furono anni di concretezza. Ingrediente indispensabile per trasformare il sogno di una società diversa nel quotidiano di tante vite escluse o ai margini della società.




«In questi anni», racconta un Matteo Amati ormai sulla soglia dei 70 anni, «la cooperazione sociale sta pagando ancora un prezzo troppo alto: c’è un clima di mortificazione di tante esperienze positive. Il libro nasce anche da questo pensiero: recuperare la memoria collettiva di un tempo in cui, molto più giovani, inventammo le cooperative sociali. Era il nostro ’68. Era la nostra idea di uno sviluppo economico più equo, diverso, che includesse i cosiddetti cittadini svantaggiati nella produzione. E dunque nella società. Non come soggetti passivi di assistenza, ma come persone attive nella vita di tutti i giorni. Recuperare l’immagine e dunque la storia del movimento cooperativo, che ha dato tanto al nostro Paese, era qualcosa che sentivo andava fatta. Soprattutto dopo quanto accaduto a Roma: dalle pagine del libro viene fuori che alcune realtà cooperative tossiche sono il risultato di vertici cooperativi fragili e di una Politica che ha smesso di fare Politica».



Matteo Amati

 
Tanti grandi maestri nella vita di Matteo Amati. «Sono stato fortunato», ammette. Don Roberto Sardelli, Pio La Torre, Don Luigi Di Liegro, Carlo Argan, Aldo Capitini, Giorgio La Pira. Tanti anche gli incontri: Ugo Vetere, Luigi Petroselli, Bruno Zevi, Antonio Cederna, Danilo Dolci.

«Dall’obiezione di coscienza alla scuola di Don Roberto nelle baracche, ad animarci era il rigore e lo studio. Nacque la coscienza civica, che divenne poi impegno politico. Questa esperienza la portai poi nella Comunità di Capodarco, nell’occupazione delle terre per il lavoro dei giovani, nella tutela del territorio quando ebbi l’incarico di consigliere prima e Assessore poi presso la Regione Lazio. Fu il nostro impegno», racconta ancora, «a far in modo che divenissero concrete le prime leggi per i servizi alla persona, le prime norme sull’integrazione e l’inclusione sociale, la tutela delle persone cosiddette svantaggiate, l’obiezione di coscienza, l’inserimento lavorativo e il grande tema dell’agricoltura sociale».
«Ho raccontato un percorso di vita, perché chi legge sappia che è stato possibile. È possibile. Mi rivolgo soprattutto ai più giovani, a quella generazione che sembra aver perso la speranza: un altro mondo», continua Matteo Amati, «è sempre possibile».
La fortuna è aver avuto anche piccoli grandi esempi, non solo nelle grandi figure dell’impegno verso gli ultimi, ma anche nella società civile e nei movimenti di impegno politico. L’amico fraterno Augusto Battaglia, allora Direttore della Comunità di Capodarco di Roma dove le persone con disabilità vivevano in libertà e autonomia, con cui a partire dal 1975 andammo in Europa a spiegare come le cooperative sociali potevano essere la risposta all’inserimento lavorativo dei cittadini maggiormente esposti al rischio di esclusione sociale; Tania Fratoni, mamma di un ragazzo con disabilità della comunità San Paolo che tutti i lunedì presenziava in Consiglio Comunale per chiedere uguaglianza e diritti; Mimmo e Nina, giovani attivisti della sezione del Pci “Che Guevara” sull’Ardeatina, con cui convincemmo gli agricoltori di quella zona di Roma a darci una mano sulle terre che avevamo occupato e con cui iniziammo la straordinaria avventura di “Agricoltura Nuova”; Luigi Cancrini, che durante la mia esperienza in Consiglio Regionale mi aiutò con le sue competenze ad immaginare i primi servizi territoriali per le persone con disagio psichico e psichiatrico; don Bruno Nicolini, “amico del popolo Rom”, che avviò nel concreto il primo percorso per l’inserimento scolastico dei bambini nelle scuole di Roma».
110 pagine di autobiografia collettiva, dove sfilano uomini e donne che non trovano posto nelle ricostruzioni ufficiali di quegli anni, ma che di quelle storie hanno fatto parte e che non devono essere dimenticate. 110 pagine, con foto e ricordi che possono ancora dire qualcosa a questo nostro tempo dove i nuovi “ultimi” faticano a trovare un posto nella società e anche voci forti a loro difesa. Le indicazioni programmatiche di quel ’68 erano Don Milani e Antonio Gramsci, come ben ricorda Guido Crainz nella prefazione. Ovvero “l’obbedienza non è più una virtù” e “creare una nuova cultura non vuol dire fare scoperte originali, ma farla vivere giorno per giorno fra le persone”: un ’68 diverso, appunto, che trova spazio anche nel nostro tempo. Basta volerlo.
Per chi vuole, Matteo Amati è presente con “Animali abbandonati in pascoli abusivi” alla fiera dell’editoria “Più libri, più liberi” di Roma in programma dal 5 dicembre 2018.

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