
Tutte realtà e comunità, queste, che vivono ormai
stabilmente nelle nostre città e da più generazioni. Molti risiedono in normali
civili abitazioni o in case popolari regolarmente assegnate. In tanti lavorano
nelle più diverse attività. In troppi, però, sono relegati nei cosiddetti campi
in condizioni di precarietà economica, ma anche in molti casi giuridica. Questo
perché, poco o male informati, non si sono avvalsi di sanatorie o di normative
che avrebbero consentito loro di ottenere un regolare permesso di soggiorno o,
perfino, la cittadinanza italiana.
Può succedere così che un ragazzo o una ragazza nati in
Italia da genitori nati in Italia, con nonni o bisnonni nel nostro Paese da
almeno quarant’anni, che sono stati regolarmente vaccinati, che hanno adempiuto
all’obbligo scolastico, che fanno il tifo per la squadra della loro città, al
compimento del diciottesimo anno di età si trovino nella scomoda condizione di
“immigrati clandestini”. Ma, immigrati da dove? In tanti addirittura finiscono
nei famigerati CIE, centri di identificazione per l’espatrio. Ed anche questo
spinge tanti giovani ai margini della società e, purtroppo, anche ai margini
della legalità.
E’ ormai tempo di abbattere i pregiudizi e liberarsi dei
tanti luoghi comuni. I cosiddetti “zingari” non rubano bambini…con quello che
costano! I cosiddetti “zingari” vorrebbero un lavoro…ma chi li assume? I
cosiddetti “zingari” non vogliono vivere “parcheggiati nei campi sosta”, perché
ormai sono in sosta da troppo tempo…e cercano casa.
E’ tempo di cambiare strada, in particolare nelle politiche
locali. Lo ha fatto Padova con il cosiddetto Villaggio della Solidarietà, case
in muratura autocostruite da quelle famiglie. Lo hanno fatto a Reggio Calabria
con il progetto Lacio Gave e più recentemente a Napoli, Scampia e Secondigliano
nella raccolta differenziata dei rifiuti. Lo hanno fatto imprese che hanno
assunto quei ragazzi, poche ancora, e famiglie che hanno chiamato quelle
ragazze a collaborare in casa. Altri hanno fatto da soli, i sinti con le loro
giostre. Altri ancora hanno trovato lavoro spacciandosi per immigrati slavi…che
tocca fare per vivere!
La Comunità di Capodarco non è nuova al tema rom. Non lo è
stata nella sua storia accogliendone più d’uno, perché la condizione di
disabilità non sempre era compatibile con le condizioni di vita di quelle
famiglie. Non lo è stata nei tempi più recenti con la Cooperativa Ermes, che è
intervenuta nei campi, in particolare con un concreto sostegno alla frequenza
scolastica di tanti bambini ed adolescenti, o con gli operatori della
formazione professionale che hanno accompagnato alcuni di quei giovani verso
un’occupazione. Ed anche con nostre famiglie che hanno saputo costruire solidi
rapporti di amicizia e di collaborazione frequentando i campi.
Ma occorre fare di più e va in
questa direzione la proposta che la Comunità di Capodarco ed il Consorzio
Bastiani con la società Leroy Merlin hanno recentemente presentato al Comune di
Roma e che da qualche giorno appare sul nostro sito. Vogliamo cancellare la
vergogna del campo La Barbuta e realizzare abitazioni civili in muratura con i
necessari servizi, coinvolgendo gli stessi rom nella costruzione e nella
gestione del villaggio. Vogliamo offrire con adeguati impianti a quei giovani
nuove opportunità di lavoro nella raccolta differenziata. Vogliamo affidare alle
famiglie ed ai ragazzi del posto, non solo rom, spazi per attività sociali,
educative e culturali.
Una sfida, forse, prima di tutto
a noi stessi. Ma anche, soprattutto, un progetto che può aiutare a cancellare
per sempre quell’etichetta impropria, quel “nomadi” che non si addice più a
persone, famiglie e comunità, certamente legate alla loro cultura ed alla loro
storia, ma che vorrebbero finalmente essere considerate appartenenti a pieno
titolo, con i relativi diritti e doveri, alle nostre comunità cittadine.
Augusto Battaglia
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