“Animali abbandonati in pascoli abusivi” (Edizioni
Alia, 2018) l’autobiografia collettiva di una generazione che scelse
l’obiezione di coscienza e di stare dalla parte scomoda, ma giusta: quella
delle persone senza diritti
Resistere
era servito a qualcosa: con queste parole Matteo Amati apre, nella prima parte di quella che è e
resta l’autobiografia collettiva di una generazione che scelse un ’68 al fianco
degli ultimi, il suo primo libro “Animali abbandonati in pascoli abusivi”
(Edizioni Alia, 2018). Si trattava di ottenere assistenza per il figlio
minore di una signora, madre disabile di altri tre figli e con un marito
alcolizzato: erano i primi anni ’70. I servizi alla persona ancora non c’erano
o comunque erano veramente poche le risposte di assistenza pubblica esistenti.
L’Assessorato ai servizi Sociali era in via Petroselli. Nessuno ebbe una
risposta da dare a questa famiglia. Matteo Amati, stufo di rimpalli da un
ufficio ad un altro, dormì lì e attese il giorno dopo. Il piccolo Luca ebbe la
possibilità di una vita diversa: un’opportunità.
E’ un ’68
diverso, sicuramente poco raccontato. Un ’68 collettivo, caratterizzato da incontri
importanti e tante preziose figure minori: la storia di Matteo Amati è la
storia di una generazione che scelse di stare al fianco degli operai del marmo
travertino di Tivoli, al fianco dei 350 tipografi dell’Apollon che occuparono
la fabbrica per evitare i licenziamenti, al fianco di Don Sardelli che
sperimentava la sua scuola nelle baracche dell’Acquedotto Felice, al fianco
della Comunità di Capodarco che iniziava il suo percorso per l’inserimento
sociale e lavorativo delle persone con disabilità, al fianco di quei giovani e
di quei braccianti agricoli che chiedevano lavoro e recupero delle terre incolte
a Roma. Una generazione generosa, entusiasta, consapevole di essere il
cambiamento. Una generazione che abbracciò l’obiezione di coscienza. Una
generazione che scelse, con profonda radicalità, di stare dalla parte scomoda,
ma giusta: quella delle persone senza diritti. Dalle occupazioni di
fabbriche e terreni agricoli alla nascita delle prime cooperative sociali, fino
all’impegno politico dentro le Istituzioni: furono anni di concretezza.
Ingrediente indispensabile per trasformare il sogno di una società diversa nel
quotidiano di tante vite escluse o ai margini della società.
«In questi
anni», racconta un Matteo Amati ormai sulla soglia dei 70 anni, «la
cooperazione sociale sta pagando ancora un prezzo troppo alto: c’è un clima di
mortificazione di tante esperienze positive. Il libro nasce anche da questo
pensiero: recuperare la memoria collettiva di un tempo in cui, molto più
giovani, inventammo le cooperative sociali. Era il nostro ’68. Era la nostra
idea di uno sviluppo economico più equo, diverso, che includesse i cosiddetti
cittadini svantaggiati nella produzione. E dunque nella società. Non come
soggetti passivi di assistenza, ma come persone attive nella vita di tutti i
giorni. Recuperare l’immagine e dunque la storia del movimento cooperativo, che
ha dato tanto al nostro Paese, era qualcosa che sentivo andava fatta.
Soprattutto dopo quanto accaduto a Roma: dalle pagine del libro viene fuori che
alcune realtà cooperative tossiche sono il risultato di vertici cooperativi
fragili e di una Politica che ha smesso di fare Politica».
Matteo Amati
Tanti grandi
maestri nella vita di Matteo Amati. «Sono stato fortunato», ammette. Don
Roberto Sardelli, Pio La Torre, Don Luigi Di Liegro, Carlo Argan, Aldo
Capitini, Giorgio La Pira. Tanti anche gli incontri: Ugo Vetere, Luigi
Petroselli, Bruno Zevi, Antonio Cederna, Danilo Dolci.
«Dall’obiezione
di coscienza alla scuola di Don Roberto nelle baracche, ad animarci era il
rigore e lo studio. Nacque la coscienza civica, che divenne poi impegno
politico. Questa esperienza la portai poi nella Comunità di Capodarco,
nell’occupazione delle terre per il lavoro dei giovani, nella tutela del
territorio quando ebbi l’incarico di consigliere prima e Assessore poi presso
la Regione Lazio. Fu il nostro impegno», racconta ancora, «a far in modo che
divenissero concrete le prime leggi per i servizi alla persona, le prime norme
sull’integrazione e l’inclusione sociale, la tutela delle persone cosiddette
svantaggiate, l’obiezione di coscienza, l’inserimento lavorativo e il grande
tema dell’agricoltura sociale».
«Ho
raccontato un percorso di vita, perché chi legge sappia che è stato possibile.
È possibile. Mi rivolgo soprattutto ai più giovani, a quella generazione che
sembra aver perso la speranza: un altro mondo», continua Matteo Amati, «è
sempre possibile».
La fortuna è
aver avuto anche piccoli grandi esempi, non solo nelle grandi figure dell’impegno
verso gli ultimi, ma anche nella società civile e nei movimenti di impegno
politico. L’amico fraterno Augusto Battaglia, allora Direttore della
Comunità di Capodarco di Roma dove le persone con disabilità vivevano in
libertà e autonomia, con cui a partire dal 1975 andammo in Europa a spiegare
come le cooperative sociali potevano essere la risposta all’inserimento
lavorativo dei cittadini maggiormente esposti al rischio di esclusione sociale;
Tania Fratoni, mamma di un ragazzo con disabilità della comunità San Paolo
che tutti i lunedì presenziava in Consiglio Comunale per chiedere uguaglianza e
diritti; Mimmo e Nina, giovani attivisti della sezione del Pci “Che Guevara”
sull’Ardeatina, con cui convincemmo gli agricoltori di quella zona di Roma a
darci una mano sulle terre che avevamo occupato e con cui iniziammo la
straordinaria avventura di “Agricoltura Nuova”; Luigi Cancrini, che durante la
mia esperienza in Consiglio Regionale mi aiutò con le sue competenze ad
immaginare i primi servizi territoriali per le persone con disagio psichico e
psichiatrico; don Bruno Nicolini, “amico del popolo Rom”, che avviò nel
concreto il primo percorso per l’inserimento scolastico dei bambini nelle
scuole di Roma».
110 pagine
di autobiografia collettiva, dove sfilano uomini e donne che non trovano posto
nelle ricostruzioni ufficiali di quegli anni, ma che di quelle storie hanno
fatto parte e che non devono essere dimenticate. 110 pagine, con foto e ricordi che
possono ancora dire qualcosa a questo nostro tempo dove i nuovi “ultimi”
faticano a trovare un posto nella società e anche voci forti a loro difesa. Le
indicazioni programmatiche di quel ’68 erano Don Milani e Antonio Gramsci, come
ben ricorda Guido Crainz nella prefazione. Ovvero “l’obbedienza non è più una
virtù” e “creare una nuova cultura non vuol dire fare scoperte originali, ma
farla vivere giorno per giorno fra le persone”: un ’68 diverso, appunto, che
trova spazio anche nel nostro tempo. Basta volerlo.
Per chi
vuole, Matteo Amati è presente con “Animali abbandonati in pascoli abusivi”
alla fiera dell’editoria “Più libri, più liberi” di Roma in programma dal 5
dicembre 2018.
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